La storia dell’architettura fra le due guerre è una avventura convulsa ed amara e merita un’attenzione maggiore di quanto non le sia stata riservata da parte di quegli studiosi che più direttamente si sono impegnati nella storia della cultura e degli intellettuali negli anni del fascismo.

 

 

Sono profondamente convinto, e cercherò di avviare almeno un’ipotesi di lettura in questo senso, che la vicenda architettonica durante il fascismo sia capace di gettare luce nuova nella più com­plessa e generale storia degli intellettuali in quegli anni. Con questo voglio dire che è estremamente difficile allo stato attuale delle conoscenze fare la storia degli intellettuali in breve: a meno che non si creda nell’attendibilità delle tipo­logie sociologiche da cui possono sortire fer­tili risultati, ma a condizione che si disponga di un apparato di conoscenze analitiche tanto ampio da consentire una classificazione che sia pertinente e documentata.
Spesso liquidata come “fascista”, l’architettura italiana tra le due guerre ha in realtà vissuto la ricerca critica e la sperimentazione degli architetti razionalisti. Fu un’avventura difficile e, per certi aspetti, drammatica, che pure ripercorsa oggi può gettare luce sulla storia e sul ruolo degli intellettuali di quegli anni.
Per capire l’importanza che ebbe l’architettura durante il Ventennio, basta ricordare la frase espressa da Mussolini durante un dibattito tenutosi a Reggio Emilia il 30 ottobre 1926: “il regime fascista passa e passerà alla storia, attraverso le sue opere concrete, attraverso le trasformazioni effettive, fisiche, profonde del volto della Patria …”
L’architettura divenne la principale e migliore forma di propaganda e prestigio. Tutte le nuove città furono costruite seguendo uno schema ben preciso: dal centro partivano tutti gli edifici pubblici come la scuola e l’ufficio postale, da qui si estendeva il vero e proprio centro abitato.
Per capire meglio la problematicità vissuta dagli architetti dell’epoca, bisogna analizzare l’aspetto di continuità e discontinuità della cultura e dell’architettura tra le due guerre. Si tratta, per dirla in breve, di dare una risposta ad una do­manda che in modo esplicito o implicito af­fiora con sempre maggiore insistenza nella sto­riografia dedicata alla cultura italiana negli anni del fascismo; la domanda, grosso modo, si riduce a questo interrogativo: esiste una con­tinuità tra cultura prefascista, fascista e post­fascista? Nel dare una risposta, positiva o ne­gativa che sia, si rischia di cadere nell’astrazione o nel dommatismo. L’unica via seria è quella di misurare, metro per metro, in concreto, il senso particolare e circoscritto di una tale tematica calandosi in quell’universo ben diversificato che è la storia degli intellettuali durante il fascismo.
Assecondando una logica di per sé preesistente al fascismo, il regime favorì una politica corporativa che esercitò una sua pres­sione ed un certo sinistro fascino su quel dif­ficile animale che è pur sempre l’intellettuale. Il sindacato degli scrittori, quello degli artisti, degli architetti sancirono formalmente, in ter­mini burocratici, una politica della cultura che faceva leva sulla separazione dei ruoli perse­guendo il fine strumentale di un più sicuro e diretto controllo. Se ciò è vero, bisogna a que­sto aggiungere una circostanza che è preminente nell’evoluzione culturale di una so­cietà: una cultura non è un blocco monolitico che si evolve con le stesse leggi e con gli stessi tempi, ci sono sfasature e ritardi, salti e cadute che di volta in volta possono interessare l’una o l’altra disciplina che in essa si identificano. Per evitare l’astrazione voglio farvi un esempio pratico: l’esplosione futurista avviene in anni in cui il panorama dell’architettura italiana è di una piattezza e di una mediocrità rara a tutti i livelli ed in ogni centro del paese. Al contrario la fioritura della nuova architettura razionale ha principio sul finire degli anni Venti e produce le sue opere formalmente più signi­ficative nella prima metà degli anni Trenta, in anni in cui, è ben dif­ficile segnalare dei movimenti o dei gruppi che reggano il confronto con l’opera di rinnovamento intrapresa dal gruppo degli architetti lombardi in primo luogo. Il tramite di questa iniziativa è costituito dal carrozzone del gruppo di No­vecento, madrina Margherita Sarfatti, che ben espresse il vuoto e la confusione della politica per l’arte intrapresa dal regime in prima per­sona. Solo a partire dalla seconda metà degli anni Trenta si potrà parlare di una svolta di segno nuovo nell’arte italiana: pittura e scul­tura astratta si affacciarono su altri orizzonti, in anni in cui ormai l’architettura razionale su­biva cocenti sconfitte e durante i quali, simmetricamente e inevitabilmente, si assisté ad una caduta di tensione creativa. Come si può vedere in questo schema sommario appena abbozzato le vicende dell’arte e dell’architet­tura italiana hanno un andamento sinusoidale ma per nulla coincidente. Un tale disegno può essere applicato ad altri settori e difficilmente ci troveremmo di fronte a diagrammi perfetta­mente congruenti.
Dopo questa necessaria parentesi è d’obbligo ritornare all’interrogativo che ci eravamo po­sti, e cioè se esiste in primo luogo una conti­nuità tra cultura prefascista e fascista. Una con­tinuità che è lampante in alcuni settori: sia sul fronte dell’opposizione che su quello di so­stegno e di fiancheggiamento. Contrariamente a quanto avviene nella sto­riografia e nella filosofia italiana in cui questa continuità - nel bene e nel male - è direi evi­dente, per quanto riguarda l’arte italiana tale continuità è solo fittizia: per riferirci all’unico evento rilevante, ancora il futurismo, si può dire che tale continuità non esiste o è solo apparente. Dopo la grande guerra il futurismo è una buffonesca e irritante rimasticatura re­gressiva dell’avanguardia.
Nel campo dell’architettura tale continuità non esiste: tra Sacconi e Sommaruga da un lato, Pagano e Piacentini dall’altro, c'è una pro­fonda frattura. Piacentini dopo l’esperienza modernista del teatro al Corso in cui si riverberano gli echi della secessione, inaugura una sua via monu­mentalistica che di fatto è un taglio netto con la sua stessa biografia professionale. Se ciò è vero per Piacentini non v'è dubbio che per Pagano, Terragni o Libera bisogna parlare di un nuovo corso che nasce nel 1926-27. Non esiste, pertanto, soluzione di continuità tra l’Italia umbertina e l’Italia fascista segnatamente all’architettura: in questo specifico settore il fascismo svolge un ruolo di assoluto rilievo sia sul fronte modernista che su quello monumenta­lista. Entrambi i due schieramenti sono figli legittimi del regime; che poi uno di essi, il naturaliter, venga ripudiato è altro discorso e converrà riprenderlo più avanti. Così facendo mi pare di non indulgere in quel vezzo pernicioso sot­tolineato da Garin (storico del pensiero umanistico di fama mondiale): «Si è tentata la separazione dei 'buoni' dai 'cattivi', non in base a contenuti reali, ma in rapporto alle scelte di partito (e alle trasformazioni) dei singoli intellettuali fra guerra e dopoguerra, e ancora una volta fa­cendo appello a valutazioni morali, o morali­stiche, dei comportamenti individuali». Non sfuggirà a nessuno che Piacentini è il «cat­tivo» e Pagano il «buono»: ma tale gioco delle parti mette a posto la co­scienza dei democratici, ma ci dice poco o nulla sul perché entrambi furono fascisti, «il buono» certamente più convinto e onestamente più par­tecipe del primo. Il «cattivo», fu campione esem­plare di un cinismo tutto italiano, fascista per vocazione più che per convinzione, tanto che subito dopo divenne uomo della nuova maggioranza democri­stiana.
Affermando una assenza di continuità tra ar­chitettura prefascista e fascista non si vuol certo negare che l’architettura del regime pulluli improvvisamente, ma essa prospera in quel clima: anche se bisogna stare bene attenti a non ca­dere nella rete di ridurre a fascismo tutto quanto avvenne in quegli anni. Se dunque questa discriminante della continuità vale d’essere considerata, non può essere elusa un’altra considerazione che già ho sostenuto circa il ruolo determinante che ha svolto l’ar­chitettura nel quadro complessivo della politica culturale e nell’attività propagandistica del re­gime. La stazione di Firenze (Arch. Michelucci), Sabaudia, i nu­merosi concorsi per le grandi opere che hanno tramandato ai posteri l’immagine imperitura del fascismo, fino all’ultimo atto dell’Esposizione universale di Roma (E 42) fu­rono ricorrenti occasioni di acceso dibattito, di scontro tra tradizionalisti e novatori. Ma ciò che importa in questo momento, non è ritor­nare a quelle dispute che ebbero in Pagano e Piacentini attori di primo piano, quanto riba­dire che esse furono di gran lunga più popolari, suscitarono assai più interesse, scalpore o scandalo, di quanto non sia avvenuto in altri settori della cultura. Per fare ancora un esempio concreto: Gli indifferenti o Le ambizioni sbagliate di Moravia furono certo eventi di pri­missimo piano nella storia della cultura italiana, diedero luogo a polemiche, censure, intimidazioni ed altro, ma tutto si svolse nell’orticello privilegiato di uno sparuto gruppo di addetti ai lavori. La po­lemica per la stazione di Firenze fu un evento di portata assai più vasta e coinvolse un nu­mero grande di cittadini: così grande che la polemica ad un certo punto sfuggì com­pletamente di mano agli addetti ai lavori e passò in quella, di Mussolini stesso. Fu il segno che accese il cuore alla speranza di quanti credevano in un fascismo rivoluzionario, fossero essi architetti, pittori o letterati. Fu un impatto violento, senza ambiguità. Possiamo tranquillamente sostenere, che l’architettura ebbe una sua carica di immediatezza e una capacità comunicativa enorme, tale da non poter essere relegata ai margini in una storia della cultura di quegli anni, né rimane periferica in una sto­ria del rapporto intellettuali-potere. Peraltro fu lo stesso Mussolini che a Emil Ludwig dichiarò: «A mio giudizio la massima tra tutte le arti è l’architettura, perché comprende tutto»: di­mostrò coi fatti questa sua preferenza inau­gurando, a partire proprio da quegli anni, una politica edilizia di enorme portata. E sia pure di sfuggita, non si può non lamentare l’as­senza totale di studi su questo settore impor­tante dell’economia italiana durante il fascismo, studi che sono ormai divenuti indispensabili per capire le ragioni di tanto interesse, per mi­surare - non in termini qualitativi ma quanti­tativi - il peso che tale settore produttivo ebbe nel capitalismo di stato e privato di quegli anni. Non so chi abbia scritto che sotto i regimi dit­tatoriali le fortune dell’architettura sono pro­spere e questo è vero per un semplice motivo: l’architettura solletica in modo diretto la fan­tasia di chi vuole passare alla sto­ria, quella con la S maiuscola; ed in questo senso le testimonianze si sprecano visto che sia Mussolini, sia Hitler con ancora maggiore determinazione, si espressero su tale argomento con una perseveranza incredibile. Per quanto concerne Mussolini il mito dell’impero, della rinascita di Roma, dei colli fatali, furono tutti una somma di stimoli che puntavano diritto ad una architettura che tramandasse ai posteri l’immagine di quel tempo glorioso. Mussolini, non esitò a dichiararsi uno «spirito romano» proprio per questa sua febbre di «costruttore». Da questo angolo visuale - a parte le grandi opere celebrative - la politica edilizia prefascista, dimessa e stentata, ha caratteri ben diversi da quella intrapresa dal regime soprattutto dalla grande depressione del ’29 in poi. Si può quindi affermare senza ombra di dubbio che manca una continuità, sia considerando gli aspetti formali o stilistici, sia valutando, in termini quantitativi, la politica edilizia dell’Italia mussoliniana. Ed è un aspetto tutto ancora da indagare o da recuperare: l’unica via per uscire dalle strettoie di una storia dell’architettura che è ancora e soltanto storia delle eccezioni emergenti nel processo edilizio.
Ma chi sono gli autori che hanno lasciato il segno? A chi si può attribuire il titolo o l’epiteto di fascista? I nomi, da parte mia li ho: a cominciare da Pagano, per non parlare di Terragni e passando nel settore più proprio delle arti a Bontempelli, a quel Sironi che è una delle più alte testimonianze di come si sia potuti essere fascisti militanti e nello stesso tempo crudeli testimoni ed impietosi spettatori di quella tragedia che, col ruolo pubblico as­sunto, il pittore visse da protagonista. Un te­stimone non sospetto di quegli eventi, Ernesto Rogers, ha scritto parole oneste al riguardo: «Gli architetti più importanti della nostra ge­nerazione sono stati Terragni e Pagano: e Ter­ragni e Pagano sono stati i più fascisti di noi (...). C’erano delle riviste «Casa bella», diretta da Pa­gano, «Quadrante», diretta da Bontempelli che cercavano di portare l’architettura fascista al livello dell’architettura moderna, cioè cerca­vano di spiegare che l’architettura corrente, la più lodata, era peccaminosa, sbagliata, che non era fascista e che fascista era la nostra». Non va dimenticato, che fu Piero Maria Bardi - un critico del fronte modernista - che s’appellò diretta­mente al duce perché l’architettura moderna diventasse «arte di stato», suggerendo che «lo stato ha tutto l’interesse di controllare la delicata questione dell’architettura, secondo un criterio dittatoriale e unificatore».
Con queste premesse è d’obbligo dare ragione dell’affermazione più compromettente e che naturalmente deve avere una sua ampia spiegazione. Affermando che l’architettura di Pagano e di Terragni come quella di Piacentini e di Portaluppi sono entrambe figlie del regime, non significa certo ridurle alla stessa stregua, sarebbe ingiusto oltre che sbagliato. L’esperienza di Pagano e dello stesso Terragni, ma anche dei più giovani come i BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers), o Quaroni, nascono da premesse eccentriche al regime, ma vivono e cresco nel regime. L’architettura di Piacentini nasce da premesse che sono interne e congruenti all’ideologia dominante del fascismo: il futurismo non ebbe più posto nella politica cultura del regime degli «anni del consenso» e pure ne aveva avuto una importantissima in quello delle origini. Allo stesso modo si può dire che l’architettura razionale o radicale, nacque come creatura del regime, e come tale fu allevata. Un segno che sarebbe pretestuoso leggere come la prova di una continuità in breve tra fascismo e post fascismo, ma che solleva non pochi interrogativi, come ad esempio doversi chiedersi come mai nell’Italia di oggi, bisogna ancora battersi, per la conquista di un tetto, o come mai nulla si è fatto per stroncare alla radice la mala pianta della rendita fondiaria, come mai l’iniziativa pubblica si muove con tanta lentezza e nel senso sbagliato per risolvere i problemi dell’urbanesimo contemporaneo? Sono interrogativi che si aggiungono a quelli più generali che inve­stono il ruolo delle nostre istituzioni.
Quando sostengo che Pagano e Terragni, Bontempelli e Sironi furono fascisti, e nulla prova il contrario, sono altrettanto consapevole che la loro opera non si etichetta con l’epiteto di fascista. La contraddizione è forse nella im­propria dizione cultura fascista che può signi­ficare troppe cose e di segno opposto. La Casa del Fascio e le Periferie urbane di Sironi sono opere di artisti fascisti, ma non sono prodotti dalla cultura fascista, perché questa espresse nella generalità dei casi valori antagonistici a quelli di Terragni e Sironi. La Casa del Fascio nasce da esigenze spirituali, da riferimenti for­mali che erano in quel dato tempo storico; ma non erano di certo né esclusivi, né tipici della cultura fascista. È pur vero che il fascismo as­sunse il volto bieco di Farinacci e Starace, e quello suadente di Federzoni e Bottai e che quindi non si può parlare di una politica della cultura fascista, ma di numerose politiche che mutano nel tempo e con gli uomini, si scon­trano e si sovrappongono tra loro: pensate allo scontro tra futuristi e gentiliani, cioè tra il fascismo della prima ora e quello della nor­malizzazione del regime. Ma questo conferma quanto dicevo prima circa l’esistenza di una cultura reazionaria: l’architettura del regime, quella imperiale e celebrativa del Piacentini e compagni, fu reazionaria, perché materializ­zava attraverso un codice formale retrivo, le volontà imperialistiche e celebrative; perché tra­duceva in termini spaziali l’esigenza di egemo­nizzare una moltitudine che non era popolo ma soltanto massa. All’architettura razionale questi significati erano estranei: i valori che essa esprimeva erano semplicemente borghesi e progressivi anche se essi erano stati in alcuni anni parte integrante dell’apparato ideologico fascista. E fu proprio questa confusione d’intenti a dar maggior forza al fascismo della normalizzazione: monumentalisti e funzionalisti a pari diritto e con altrettanti argomenti e testimonianze a loro favore poterono entrambi sostenere che essi rappresentavano a buon diritto il nuovo corso della «rivoluzione» fascista.
L’imbarazzo del regime nello scegliere tra la brigata dei razionalisti e il gruppo massiccio degli accademici con posti preminenti nell’Università e nella professione era ulteriormente accentuato dagli attestati di fede fascista che in gara tra loro entrambi gli schieramenti sottoscrivevano a prova definitiva delle loro ragioni. Terragni e Pagano si professavano autentici fascisti ed in nome del fascismo combattevano la loro bat­taglia per la nuova architettura, così come il fronte opposto in nome del fascismo difendeva i principi sacri della tradizione italica. Una con­dizione questa che nulla ha in comune con quanto accadeva in Germania: dove certo non si assisté ad una gara simile. Una gara, per intenderci, che per analogia avrebbe visto Gropius e Speer contendersi l’appellativo di nazista alla loro architettura. Per questo in Italia in generale il rapporto in­tellettuale-potere fu al limite più drammatico di quanto non fosse in Germania.
Per un certo periodo, gli architetti razionalisti italiani credettero di con­durre in sintonia con le gerarchie del fascismo una battaglia contro un fronte agguerritissimo, ma storicamente perdente. Questo fronte si identificava - nella psicologia dei giovani ed entusiasti architetti fa­scisti che ai principi del movimento moderno si erano in qualche modo legati - con il blocco sociale preesistente all’avvento del fascismo: tale blocco era per essi un retaggio dell’Italia giolittiana e del superato regime demo-liberale. Co mpito precipuo della «rivoluzione fascista» era liberarli dai resti di questa tradizione sgo­minando il fronte che lo rappresentava. Que­sta diagnosi non si espresse mai in modo compiuto, né divenne mai un’analisi politica, si espresse piuttosto in modo confuso come stato d’animo d’insoddisfazione psicologica: ma certo essa fu subdolamente fuorviante. Difatti quel gruppo accademico che ad essi s’opponeva era l’espressione culturale o copertura cultu­rale di un blocco sociale nei quali convergevano quegli interessi economici che erano parte in­tegrante del regime: per questo il regime dopo alcuni anni nei quali è manifesta l’assenza di una scelta, non ebbe difficoltà nel suo complesso a rico­noscersi in esso e da allora in poi divenne l’all­eato organico del gruppo antimodernista.
Il rapporto tra regime e il gruppo dei modernisti, s’incrina quando le linee della politica culturale del regime furono sem­pre più chiare: la romanità e la monumentalità divennero il risvolto formale del concetto sto­rico-filosofico dell’eternità del regime: un con­cetto che sulla scia gentiliano-volpiana ebbe la sua più compatta e massiccia affermazione in quelli che sono stati detti «gli anni del con­senso» che giungono fino al 1936. A partire da questi anni l’incrinatura tra alcuni architetti razionalisti e il regime divenne qualcosa di più rilevante e si ha quando le pattuglie più serie del Razionalismo italiano, Pagano e «Casa­bella» per intenderei, incominciarono ad af­frontare i temi dell’ordine urbano e della piani­ficazione della città.
Nonostante non siano trascorsi poi così tanti anni da que­gli eventi, nessun settore disciplinare della no­stra cultura, e, forse nessun periodo, è così grossolanamente incrostato di «ideologia» di quanto lo sia la critica artistica nell’accezione più ampia. Si può dire che in ogni storico dell’arte e dell’architettura sonnecchia un filo­sofo, un metodologo della storia, un estetologo: che sia un bene o un male non è questa l’oc­casione per discuterne, né è mia intenzione: se su tale terreno scendessi, ri­cadrei in quell’impasse, che mi sembra, tutto sommato, più un vizio che una virtù. Certo è che tale atteggiamento si è andato nel dopo­guerra accentuando e ad esso, a partire da­gli anni Sessanta in poi, si è aggiunta una ideo­logizzazione spinta e di comodo che spesso ha contribuito a rendere assai meno chiare le cose. Tuttavia è stato salutare lo sforzo di riaffermare il «primato della politica», nel senso più aperto del significato, in un am­bito e su una tematica che era viziata di for­malismo e di astrattezza: mali tipici di una cul­tura che ha fornicato prevalentemente con le estetiche neohegeliane e assai meno con la memoria collettiva del nostro tempo che è, ap­punto, la storia.

Daniele Spairani Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.


 

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